Storia: La prima addominoplastica
La chirurgia estetica dell’obesità, una storia vecchia cent’anni
Rimuovere il grasso in eccesso dall’addome con l’asportazione di una parte di pelle e adipe è una procedura che oggi è largamente praticata secondo diverse tecniche e viene denominata addominoplastica. Ma anche se è ai tempi nostri che l’ideale del bello femmineo (ma anche maschile) vuole una figura snella con l’addome piatto, l’obesità è da sempre stata considerata una cosa da correggere.
Il primo intervento di questo genere si svolse il 15 maggio del 1899 ad opera di Howard Atwood Kelly (1858 1943) di Baltimora. Secondo quanto riporta il chirurgo, la paziente era una donna trentaduenne di 130 kg e le venne rimossa una porzione di addome del peso di 6,7 kg, lunga 90 cm, larga 31 e spessa 7.
Da notare che la stessa donna tre anni prima si era sottoposta ad una procedura simile per ridurre il seno, dal quale J.W. Chambers, un altro chirurgo di Baltimora, aveva eliminato 11 kg di massa.
La forma della bellezza: no al grasso
Abbiamo tutti ben vivi nella mente i celebri dipinti botticelliani, con forme femminine molto floride, in carne, fai fianchi morbidi e dalle gambe ben solidamente tornite. Eppure, questo ideale di bellezza classico già agli inizi del XIX secolo si andava perdendo, a favore di figure più asciutte. È in questo periodo che fanno la loro comparsa le prime richieste di riduzione del seno e la moda impone corsetti molto succinti e contenitivi.
Anche l’aura del pensiero razziale nazista incentiva questo modello, identificando nella donna tarchiata e abbondante la forma tipicamente ebraica. Addirittura, si legge nel taccuino dell’antropologo tedesco Hugo Obermaier (1877-1946) che nel 1908 rinvenne la famosa statuetta primitiva nota come “Venere di Willendorf”: “una figura schematicamente degenerata, che rappresenta una scuola (artistica) esemplare e superiore, simile a quella di Tanagra. Nessun volto, solo grasso e femminilità, prosperità, fertilità, come nelle attuali ebree pigre e corrotte”.
Commenti come questi, supportati da “studi” antropologici di sedicenti scienziati, fecero crescere fobie nei confronti delle forme “primitive” ed “ebree” delle donne grasse. L’eugenista americano Albert Wiggam (1871-1957) si lamentava del fatto che gli Stati Uniti fossero invasi da donne brutte, “basse, dai fianchi larghi, con gambe robuste, piedi grandi, e volti privi di espressione e di bellezza”, aggiungendo che “le persone belle sono di solito moralmente migliori di quelle brutte”.
L’equivalenza bello e buono non è certo una novità nel panorama culturale, visto che già il mondo greco classico era mosso, nelle arti e nella filosofia, da questo modo di pensare. La novità che comincia a profilarsi sta dunque nelle possibilità che la scienza, unitamente alla chirurgia, possono offrire concretamente: oggi l’uomo può davvero fare qualcosa per cambiare il suo aspetto, non solo per eliminare un difetto, ma per apparire migliore. In tutte le accezioni del termine.